livido e ghiaccio a sputar di sangue i giorni
mutava il viso suadente e poi d’artiglio
cinico e scaltro godeva miseria mieteva rancore
Ruggiva possente venefico e cupo spettro
fra terre deserte e città sopra rovine
bruciava di sale i raccolti e le risate
gemeva fra i tetti in crepe di fango e parole crollate
Scordato il tempo del giorno del suo avvento
negli occhi dei tanti la polvere e l’oblio
in bocca i sassi di chi non ha più un senso
negli orecchi il plagio d’ingannevoli zigane
In una notte che ingoiava falci e luna
Mairi pensava che il confine era varcato
quello sottile tra il dovere e il sopportare
quando il rispetto nelle fogne è rovesciato
Niente più ombre a misurare i passi
niente più ladri di pensieri e di emozioni
pallide copie di vite e di persone
che dio e coscienza negano e sciolgono nel liquame
Così si armò d’intenzione e di fierezza
alzò la testa e si mosse incontro al giorno
e appese al collo il cuore e la certezza
legati a nastri per non smarrirne i passi
Di fronte al Vento non ebbe esitazione
stese le braccia coi palmi al suo infierire
lui urlò uragano di fronte a quell’ardore
ma si spezzò tra il lacerar di quelle dita
Bastano soffi per dannare ogni cammino
e pochi tozzi di coraggio per tornare
per non temere chi di tuono arma il suo dire
lembi di nebbia senza mano né colpire…

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